In questi giorni – in realtà, da più di un mese a questa parte – si ha la netta impressione che i popoli del Mediterraneo abbiano deciso di scrivere una pagina di storia. Della propria storia.
Hanno iniziato i Tunisini, con una protesta che è divampata e si è estesa all’Egitto, alla Libia – migliaia di persone uccise per la violenza cieca ordinata da un dittatore folle e sanguinario – e a molti altri paesi, dall’Algeria al Bahrein, dal Marocco alla Giordania, per tacere dell’Iran. Milioni di persone, soprattutto di giovani, reclamano diritti, riforme, democrazia. Una vita e un futuro migliori.
In queste occasioni, se si ha tempo e pazienza di cercare notizie e commenti sul Web, se si conosce almeno un po’ di Inglese, o se almeno si legge “Internazionale”, si può toccare con mano il provincialismo italiano. Quello che spinge i nostri ministri a far la voce grossa con l’Unione Europea. Che fa dichiarare ai vari esponenti politici la “preoccupazione per il dilagare della violenza in Libia”, accompagnato da altrettanti o maggiori timori per gli approvvigionamenti energetici italiani e dalle rassicurazioni per le grandi aziende del Bel Paese, che col Nordafrica e i Paesi Arabi trafficano da sempre. Si tratti di gas e petrolio, oppure di impiantintistica o – più lucroso ancora – di sistemi d’arma.
Si scopre come la realpolitik italica, di vecchissima data, che ebbe Giulio Andreotti come campione ed Enrico Mattei come precursore, si sia sempre concentrata su un unico, irrinunciabile principio: gli affari sono affari. In latino, suona meglio: pecunia non olet.
Il tutto, ovviamente, condito di immancabili luoghi comuni, come “l’Italia, portaerei nel Mediterraneo”, oppure “il ruolo naturale del nostro Paese nell’area del Sud-Europa”.
Tutte cose giustissime, per carità, ma assieme tutti specchietti per le allodole. Perché ora il lato Sud del Mediterraneo è un magma ribollente: popoli giovani, poveri o con una distribuzione molto diseguale della ricchezza, rivendicano il diritto al proprio futuro. Mentre qui da noi si parla di “pericolo islamico”, si agita lo spettro di “ondate migratorie di centinaia di migliaia di persone”. Si denuncia il mancato appoggio dell’Europa (la stessa che, nei giorni dispari, viene bellamente ignorata e derisa, sulle quote-latte, i limiti per l’inquinamento dell’aria, l’utilizzo fraudolento dei fondi di sviluppo).
La paura, come sanno gli psicologi e gli strateghi elettorali, è sempre un argomento efficacissimo per convincere molte persone – molti elettori – a non farsi troppe domande e a evitare di solidarizzare col “nemico alle porte”.
Ci sarebbe un gran bisogno di menti illuminate, di leader carismatici, di statisti che abbiano a cuore valori come la solidarietà, la fratellanza, i diritti umani e civili. Ma trionfano le visioni miopi, egoiste, grettamente provinciali di chi difende con accanimento il proprio fazzoletto di benessere. Gli altri, i terroni al quadrato della sponda Sud del Mediterraneo, vadano pure alla malora. A patto che non ci chiudano di colpo i rubinetti di gas e petrolio, s’intende.